mercoledì 25 maggio 2016

Il diritto alla felicità

di Filomena Baratto

Vico Equense - Nella Dichiarazione d'Indipendenza americana del 4 luglio 1776, si contempla il diritto alla felicità, un diritto che sembra essere nato dalle odierne ideologie e che invece ha il suo antenato in Gaetano Filangieri, filosofo napoletano, che molti ci hanno invidiato per le idee giovani e fresche in relazione al benessere della società. Il concetto di libertà e di sviluppo della persona incastonato nella Dichiarazione dalle tredici colonie inglesi, porta il marchio napoletano. Forse fu quel germe a condurre al sogno americano e a fare dell'America l'odierna potenza? Ma le moderne democrazie quanto ne sanno di felicità, di benessere del cittadino, dello star bene? In periodo di elezioni tutti vanno sbandierando programmi, priorità, promesse, certezze. Ma la felicità resta, per i politici, qualcosa di astratto che si crede non sia duratura, che sia fatta di attimi, di momenti di grazia, ma sia anche inafferrabile, come un sale di vita e non una condizione. Qualcuno non crede a questo diritto, come se la felicità fosse un pensiero e non una realtà, mentre la politica è concreta, fatta di azioni da svolgere, promesse da realizzare, voti che vanno onorati con promesse mantenute, ma non certamente con la felicità, sarebbe come vendere nuvole. Eppure la felicità è nata in questo luogo, concepita in un periodo di rivoluzione, la famosa Rivoluzione del 1799, tanto da raggiungere oltreoceano la giovane America che la volle nel suo programma.
 
Quel valore sancito nella Dichiarazione americana si traduce anche nella nostra Costituzione nell'articolo 3 dove si contempla "il pieno sviluppo della persona umana". Significa fare in modo di accrescere le capacità, metterle in pratica, sviluppando nella persona tutte quelle qualità e darle tutte quelle possibilità per farla stare bene. La felicità poi cos'è? Una rivelazione dell'innamorato, un momento di gioia rapito, un fatto che attendevamo accadesse, un situazione che sblocca tante altre cose? Essa non dura di continuo ma è sempre a piccole dosi, come un contagocce che ce ne stilli un po' per volta senza farci adagiare. La felicità è uno stato di serenità che va programmato, un benessere interiore che non va per forza unito al denaro, ma legato allo sviluppo di noi stessi nella direzione che più ci è congeniale, nel diritto delle regole e degli altri. Un cittadino felice progredisce, migliora e partecipa al benessere di tutti, evitando il tranello o l'inganno che può indurre a credere che la felicità sia un fatto personale, invece è questione di collettività, fatta per essere goduta da tutti. Solo se siamo nella serena società, viviamo bene, altrimenti tutti vivono le pene di tutti e non c'è vera felicità. Nei programmi di Economia mondiale, si trova la scritta che solo un uomo felice può cambiare l'economia. Come a sottolineare che la politica deve rendere fattibile questo programma. Come? La felicità richiama a sè altri valori come la giustizia, la parità, l'uguaglianza. Quanto basta per capire che la politica deve cambiare, non ha più nulla che la leghi al concetto di piacere, nè di felicità. L'ingiustizia è sovrana e la felicità è attanagliata dai favoritismi, clientele e scambi, tutti aspetti che realizzano gli scopi di pochi e non della società. L'imbroglio vive sovrano, l'ignoranza anche, come l'economia sembra fatta per pochi eletti, così come i benefici della politica. Cosa intendeva Filangieri per felicità? Libertà di pensiero, di riflessione, che si sviluppa dove la società è riuscita a includere tutti e non precludere cose a nessuno. Le democrazie che hanno un vizio di forma o non contemplano poi tanto il benessere della gente ma solo quello di alcuni, non avranno vita lunga. Filangieri fu precoce in questo, forse grazie al contesto storico, fu tra i primi a mettere in relazione felicità, morale, ed emancipazione. Riflessione nata all'ombra dei privilegi di un governo di stampo feudale. «Siccome lo scopo della morale è la felicità – sono le parole di Filangieri - quello della morale pubblica sarà la pubblica felicità. In ogni Nazione bisogna cercare i mezzi per ottenerla, così nell'interno, come nell'esterno di essa. […] L’interna felicità di una Nazione non può essere che l’effetto di una buona legislazione. Io darò dunque nella prima parte tutte le regole per formare una legislazione adattabile ai nostri tempi e perfetta in tutte le sue parti». Filangieri fa comprendere che per uscire dalla feudalità ci vogliono buone leggi che sono la base della vera felicità. Ma mi chiedo se dopo tanto tempo, davvero abbiamo raggiunto la felicità? Davvero siamo usciti fuori dal feudalesimo? E se fosse così, di aver raggiunto questo stadio, per quale motivo si parla tanto di felicità? Gli uomini creano le leggi per altri uomini e non si capisce come, pur essendo della stessa specie, poi non si comprendono e fanno leggi che vanno bene a pochi, con privilegi e riguardi che non fanno altro che ambire alla felicità, come se fosse qualcosa sempre a venire. "La scienza della legislazione"dovrebbe essere ancora studiata e magari a cominciare dalla stessa America che crede di averla superata da un pezzo e invece è stata forse la prima a macchiarla. La felicità appartiene a tutti, altrimenti è inutile ricercarla continuamente come se fosse un fantasma, essa ha le radici nella politica, senza la quale niente è di valore.

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