martedì 27 settembre 2011

Il Pd e la falsa ripartenza

Fonte: Luciano Brancaccio da il Corriere del Mezzogiorno

Le dichiarazioni di alcuni dirigenti nazionali del Pd (Bindi) e di alcuni deputati locali (Incostante) fanno temere che allo stato attuale non ci sono le condizioni perché il partito a Napoli possa davvero giungere a una svolta. In entrambi i casi infatti la tesi sostenuta è che il partito vada ricostruito ma non azzerato, invitando a distinguere tra coloro che hanno lavorato con onestà e quelli che invece hanno minato con i propri comportamenti poco trasparenti le fondamenta del partito, e giù con la retorica sui giovani e l’auspicio di una nuova classe dirigente. A parte le considerazioni possibili e sulla distinzione concettuale (ma ben connotata nel linguaggio politichese) tra azzeramento e ricostruzione, c’è da restare allibiti per la dimostrazione di dissociazione dalla realtà. La quale almeno spiega, a vantaggio di coloro che ancora nutrono qualche perplessità, perché anche sul piano nazionale il partito non sia in grado di fare un passo in avanti, nonostante il disastro politico in campo avversario. La morte del Pd a Napoli si è consumata nelle primarie del gennaio scorso, ma arriva dopo una lunga agonia, iniziata con il partito personale di Bassolino e portata avanti con l’accanimento terapeutico del gruppo dirigente nazionale che durante e dopo la crisi (politica e morale) dei rifiuti (2008) ha deciso consapevolmente di non staccare la spina alla dirigenza locale, nell’intento di mantenerne in piedi il potenziale clientelare-elettorale.


Il crollo delle elezioni comunali scorse è solo il commiato formale di questo lungo addio. Diciamolo chiaro: in questa vicenda le responsabilità politiche nazionali non sono inferiori a quelle locali. La città è stata usata di volta in volta come serbatoio di voti, come dominio in cui piazzare qualche candidato gradito a questo o quel maggiorente e come camera di compensazione nelle falde interne al partito. In tutti questi anni, posti di fronte alla scelta tra innovazione e conservazione, a Roma hanno sempre scelto la seconda strada. Come quando annullarono le primarie in vista delle comunali del 2006, consentendo — anzi chiedendo — che la lervolino si ricandidasse. Nessuna visione strategica o, peggio, capacità di comprensione delle dinamiche locali è venuta mai dalla dirigenza nazionale. La quale però oggi, con il sostegno di alcuni «nominati» in Parlamento, pretende di indirizzare la ricostruzione. Perché questi pareri non si sono sostanziati, all’indomani delle primarie, nell’annullamento dei risultati del seggio di Miano, la cui anomalia era a tutti evidente? Perché non pretesero che la commissione di garanzia ultimasse i lavori? Numerose inchieste giornalistiche, con tanto di testimonianze di iscritti, riportarono la presenza di soggetti riconducibili al clan Lo Russo durante le votazioni. Ce n’era a sufficienza per assumersi una responsabilità politica. Oggi la Bindi auspica che la magistratura faccia chiarezza, entri nella dialettica del partito determinandone gli equilibri interni, e contemporaneamente critica la presenza di un magistrato nella giunta de Magistris. Ma non è nei loro stessi comportamenti omissivi l’accettazione di fatto di un ruolo politico della giustizia? In politica, si sa, qualunque vuoto prima o poi viene riempito.

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